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Fiat e Serbia: l’altra storia.

Fiat e Serbia: l’altra storia.:

Leggo sui giornali le gesta di Fiat in Serbia e mi ricordo come fosse ieri la passeggiata tra le rovine della Zastava di Kragujevac, bombardata a più riprese anche quando gli operai erano al lavoro e i loro figli nel nido aziendale lì vicino. Colpita anche se era noto a tutti che quella fabbrica non produceva armi, ma piccole automobili. Colpita, si vedeva e si capiva, in modo da azzopparla ma non per affondarla definitivamente. “E’un’azione di pirateria per costringerci a svendere ai vincitori alla fine della guerra”, asseriva l’allora direttore della fabbrica e le sue considerazioni facevano il paio con quelle dei dirigenti delle fabbriche di sigarette di Niš (bombardate anch’esse quel che basta) che affermavano che era nota a tutti l’esistenza di una sorta di “lista della spesa” alla base delle scorribande degli aerei della Nato. Gli obiettivi industriali, insomma, non avevano giustificazioni dal punto di vista militare ma rientravano in un elenco di beni e infrastrutture serbe che facevano gola a questa o quella nazione che, di conseguenza, spingeva affinché si “agevolasse” il passaggio di mano alla fine del conflitto. A Niš si dicevano certi del fatto che il settore del tabacco era stato azzoppato per ordine delle grandi lobbie americane che non vedevano l’ora di sfondare (come poi è successo) nei Balcani, mentre a Kragujevac si ripeteva che la Zastava era stata presa di mira su ordine del governo italiano. Fantasie? Non so! Quel che è certo è che le sentii ripetere anche in Kosovo in ambiente Nato e quel che è certo è che dopo la guerra si scatenò pubblicamente e senza vergogna il grande business della ricostruzione. I paesi che avevano bombardato e avevano ottenuto il bel risultato del Kosovo islamizzato, ora si accapigliavano tra loro per prendere possesso di territori da ricostruire o di fabbriche da “salvare”. Si parlava di appalti e affari miliardari e se vi paiono esagerazioni tornate a leggere i giornali del tempo e vedrete paginate dedicate all’Italia che rivendicava il diritto di mettere le mani sulle telecomunicazioni (ricordate il caso Telekom Serbia?), i francesi che pretendevano il controllo delle miniere, i greci le ferrovie, i tedeschi le autostrade e le grandi opere, mentre inglesi e americani guardavano già oltre e si interessavano delle rotte dei gasdotti e dei corridoi strategici che poi erano la vera ragione della guerra. L’Italietta incredula di aver vinto per una volta una guerra reclamava il proprio posto al tavolo del vincitore e senza pudore alcuno gonfiava il conto delle spese sostenute nella sporca aggressione e alzava le pretese risarcitorie. Ricorderete gli articoloni in cui si fantasticava sulle possibilità eccezionali che si sarebbero aperte per le imprese del Veneto e del Nord in generale grazie alla ricostruzione e ricorderete che trattamento durissimo fu riservato alla Lega Nord che, sola, ebbe il coraggio di dire che quella guerra oltre a non avere nulla di umanitario, si sarebbe rivelata un errore dal punto di vista geo-strategico, commerciale e migratorio. Finì che l’Italietta fu fatta sedere sotto il tavolo e furono fatte cadere delle briciole che però non finirono né alle famose aziendine venete né ai laboriosi artigiani lombardi che anziché andare in Serbia a ricostruire si trovarono i cosiddetti rifugiati albanesi in casa loro. Una impresa a perdere dunque, quella italica nei Balcani, ma poi, ed è storia recente, eccoti la Fiat nell’ex bombardata Kragujevac ed eccoti i soliti giornaloni che, adoranti, ci spiegano che, quasi quasi, è un’azione di carità, un aiuto verso i nostri fratelli serbi che più di noi soffrono fame e disoccupazione. Peccato che tutti dimentichino che se non li avessimo bombardati essi oggi non avrebbero bisogno della “grande generosità Fiat” e peccato che nessuno osi fare due conti e tirare delle conclusioni. Si racconta infatti che “l’operaio serbo è duttile ed elastico” e si adatta ad uno stipendio che equivale ad un quinto di quello italiano, ma nessuno aggiunge che il costo della vita è poco più basso del nostro in tutta l’ex Jugoslavia e in specie in un paese collassato dalla guerra, costretto all’importazione e in grado di scaldarsi e muoversi non certo grazie al finto aiuto occidentale ma ai rapporti eccellenti con la Russia rinsaldati dall’attuale presidente Nikolić , uno che ha sempre detto che la guerra contro i serbi era una guerra contro gli interessi dell’Europa. La conclusione è che non si tratta né di un aiuto, né di una rivoluzione industriale ma di semplice sfruttamento di gente che è consenziente perché non ha nessuna altra alternativa e, con tutto il rispetto, fanno un po’ sorridere quei sindacati italiani che oggi si indignano e si lamentano, ma al tempo della guerra tifavano compatti per il governo D’Alema che ne fu protagonista. Nikolić ricorda giustamente che la Serbia non ruba nulla (anzi con gli incentivi, per i primi 3 anni gli stipendi son praticamente pagati da Belgrado) e si limita a creare le condizioni fiscali più attraenti per le imprese. Se anziché abbaiare alla luna i sindacati italici spingessero per la creazione di zone franche industriali anche in Padania (e non solo al Sud), probabilmente il problema sarebbe già risolto alla radice. Ma questo chiaramente non fa comodo a lorsignori e allora l’unica soluzione alternativa sarebbe l’entrata della Serbia nella UE e l’automatico innalzamento dei salari a livelli polacchi, ma anche qui la strada è in salita perché Italia e compagni pretendono che Belgrado riconosca l’ingiustificabile indipendenza del Kosovo islamizzato. Chiesto da Roma che non concede neppure un briciolo di legittima autonomia alle regioni del Nord, francamente suona assurdo, ma questa è un’altra storia.

Max Ferrari (La Padania del 14-11-2012)

http://maxferrari.net/2012/11/14/fiat-e-serbia-laltra-storia

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http://ifttt.com/images/no_image_card.png November 14, 2012 at 06:50PM